Lavora, riproduci, taci

June 20, 2010

La crisi e
l’attacco ai diritti


1.
Il ritorno della Manchester dell’800

 

La
vertenza in corso nello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco
presenta alcuni elementi noti e insieme aspetti nuovi. Utilizzando il
classico strumento del ricatto dei licenziamenti (la minaccia della
chiusura dell’impianto con delocalizzazione in Polonia), la Fiat
pretende di ottenere l’aumento del numero dei turni fino a 18, la
riduzione della pausa mensa, la rinuncia preventiva al diritto di
sciopero. In tal modo, sulla pelle degli operai, può essere
mantenuta la promessa dei vertici aziendali di aumentare la
produzione italiana (1 milione e 400.000 vetture).

Le
richieste della Fiat sono, dicevamo, antichissime: si intensifica lo
sfruttamento (al punto che chi finisce il proprio turno in
carrozzeria alle 14 deve ripresentarsi in fabbrica alle 6 della
mattina seguente), si rinuncia a qualsiasi forma di conflitto, si
accetta la totale subalternità del lavoro alle logiche
padronali. In altre parole, un ritorno alle fasi del primo
capitalismo post rivoluzione industriale. Ma con una differenza
sostanziale, però: le nuove tecnologie informatiche invece di
concentrare la produzione in un unico posto, consentono
un’organizzazione modulare e reticolare del lavoro e della filiera
produttiva, con ovvi effetti di frammentazione e segmentazione
spaziale del ciclo produttivo.

Con
ciò ci si assicura l’impossibilità del sindacato ad
agire forme di organizzazione, con esiti paradossalmente peggiori a
quelli dei primi decenni della rivoluzione industriale, quando
addirittura il sindacato non esisteva e si assisteva alla nascita
delle prime sperimentali strutture autorganizzative dei lavoratori.
L’inefficienza dell’azione sindacale si spiega oggi dentro una
complessità che vede la totale soggezione di Cisl e Uil (oltre
il limite della decenza), il tentativo di semplice resistenza (almeno
a parole) della Cgil e le risposte più attive ma ininfluenti,
del sindacalismo di base. In nessun caso noi osserviamo la capacità
di rilanciare il conflitto su basi propositive e innovative.

E’
quindi necessario discutere le pratiche politiche per creare
situazioni di vertenzialità rivendicativa. Nel concreto,
cerchiamo di tradurre, ancora una volta, di insistere, di ripetere:
oggi il luogo di produzione è il territorio, la produzione è
sempre più produzione reticolare e di subfornitura, le
condizioni di vita sono le condizioni del lavoro (la precarietà
è una condizione esistenziale), la remunerazione del lavoro
(ieri salario) oggi tende ad essere remunerazione di vita (continuità
di reddito incondizionato). Occorre tradurre tutto ciò in una
vertenza sociale nei confronti di chi (imprese, municipalità,
stato, istituzioni europee) gestisce, comanda e coordina le strutture
che mettono in pratica le strategie di controllo del sistema
produttivo e le varie forme di speculazione territoriale e/o
finanziarie. In altre parole, è sempre più impellente
organizzare il conflitto non solo nel singolo posto di lavoro, ma
all’interno di tutta la struttura territoriale e sociale della
filiera.

2.
Quando l’uguaglianza fa comodo

L’obbligo
europeo di rispettare il pari trattamento tra uomini e donne in tema
di età pensionabile viene immediatamente preso a pretesto dal
governo italiano per innalzare l’età della pensione per le
lavoratrici del pubblico impiego. Da un punto di vista teorico,
decontestualizzato, potrebbe non esserci nulla da eccepire. Ma se
svolgiamo un’analisi comparata a livello europeo riguardo il tempo
di lavoro complessivo svolto dalle donne, ci accorgiamo che per le
donne italiane il tempo medio giornaliero di lavoro retribuito è
pari effettivamente a circa la metà di quello maschile (2 ore
e 6’ contro i le 4 ore e 26’ dei maschi), di poco al di sotto
della media europea, ma il tempo di lavoro non retribuito (di cura e
domestico) risulta pari a 5 ore e 20’, quasi quattro volte quello
maschile (1 ora e 35’): un divario che è mediamente il
doppio di quello riscontrabile a livello europeo. Ne consegue che il
tempo complessivo di lavoro femminile al giorno (retribuito e non
retribuito) risulta mediamente superiore a quello maschile ed è
il più elevato a livello europeo (dati Eurostat, “A
statistical view of the life of women and men in the Eu25”, 2008,
riportati nella Tab. 3, pag. 121 in C. Morini, “Per amore e per
forza”, Ombre Corte, Verona, 2010). Le ragioni di tale situazione
sono note: in Italia, a differenza di molti paesi europei, non esiste
una struttura di welfare adeguato (in termini di strutture e servizi)
tale da consentire una ripartizione del carico di lavoro domestico e
di cura dei figli in modo paritario tra uomini e donne. In
particolare, tale divisione di compiti appare più marcata non
tanto nelle fasce giovanili (per le quali, si registra più o
meno un pari tempo di lavoro retribuito tra uomini e donne), ma nel
momento in cui si fanno figli, a conferma che oggi in Italia
coniugare produzione e riproduzione è di fatto impossibile:
almeno finché non si introducono garanzie di stabilità
e continuità di reddito in grado di consentire una

libera
scelta di vita.

Un intervento di Giuliano Cazzola
su lavoce.info,
qualche tempo fa, già metteva in guardia dall’idea di
innalzare l’età della pensione di vecchiaia delle donne. E
non solo in base ai pur giusti ragionamenti che abbiamo sopra
affrontato e che riguardano la particolare condizione della donna nel
lavoro e nella famiglia. Il punto centrale è che una norma
siffatta introdurrà soltanto un tasso di iniquità
estremamente elevato nel sistema dove è assolutamente
minoritario il numero delle lavoratrici in grado di maturare, in
conseguenza delle loro storie lavorative frammentarie – piene di
buchi perché magari per un po’ hai smesso per avere un
figlio, perché hanno storie più facilmente precarie – i
requisiti contributivi (35 anni di versamenti) indispensabili per
aver diritto alla pensione di anzianità. E’ più
facile – di norma – per le donne varcare la soglia dei 60 anni di età
e accedere al trattamento di vecchiaia (per il quale bastano 20 anni
di contributi). Finirà perciò per determinarsi il
paradosso per cui gli uomini andranno in pensione a 57-58 anni
(potendo raggiungere, entro quella soglia, i relativi requisiti
contributivi di anzianità lavorativa), mentre le donne
dovranno attendere il limite imposto dalla vecchiaia (i 65 anni
europei, in nome dell’eguaglianza).

A fronte di questa situazione, la
richiesta di aumentare l’età lavorativa delle donne del
pubblico impiego in nome della parità di genere appare del
tutto strumentale. Essa, di fatto, nasconde altri intendimenti. E’
facile attendersi, che sempre in nome della parità (questa
volta non di "genere", ma di trattamento pensionistico),
l’età della pensione verrà aumentata a 65 anni anche
per le lavoratrici del settore privato. Lo scopo è, in nome
della stabilità di bilancio, ridurre la spesa pensionistica,
come richiesto in questi mesi dalla Commissione Europea e dal Fmi,
magari favorendo la pensione integrativa privata per dare nuova linfa
agli attuali asfittici mercati finanziari. Inoltre, appare del tutto
fuori luogo l’entusiasmo della Confindustria per tale misura, dal
momento che sono proprio le organizzazioni padronali a chiedere
sempre più massicci pre-pensionamenti a carico della
collettività per ridurre i propri costi e ottenere incrementi
di profitto. L’esito, infine, è quello di ridurre il
turn-over tra giovani e anziani, diminuendo la possibilità di
avviare posti stabili e quindi favorendo la crescita di una
condizione di precarietà già oggi insostenibile.

*
* * * *

Le
due situazioni trattate appaiono molto diverse tra loro, ma c’è
un elemento che le collega: la necessità di ripensare un
sistema di sicurezza sociale e di welfare, di natura universalistica,
in grado di essere adeguato alle variegate e frammentate realtà
sociali e di lavoro. Con la crisi del paradigma fordista, il rapporto
tra situazione lavorativa e sicurezza sociale è
drammaticamente cambiato. Avere un contratto di lavoro a tempo
indeterminato (magari con la possibilità di accedere ad una
qualche forma di ammortizzatore sociale) oggi non garantisce più
nulla. Lo sanno bene le migliaia di operai di Pomigliano d’Arco
come delle numerose fabbriche del Nord e del Sud chiuse, smantellate
e ridotte. La precarietà è generalizzata. Lo sanno bene
anche quelle donne costrette a scegliere tra il mantenimento di un
posto di lavoro e la voglia di esaudire il desiderio di maternità
(magari ripagato da cinque anni di lavoro in più). Ecco come
la precarietà “si fa” esistenziale.

Se
la sicurezza sociale e i diritti di vita sono subalterni alla
condizione lavorativa e quest’ultima è sempre più
precaria al punto di non garantire più condizioni dignitose di
vita anche per chi è occupato, allora, è chiaro che il
livello di ricattabilità è talmente alto da non
permettere una qualche forma di re/azione conflittuale. E’ questa
la catena perversa che occorre spezzare. Per poter modificare i
rapporti di forza, oggi sfavorevoli, nel mercato del lavoro, è
quindi necessario intervenire per fornire una rete di sicurezza
sociale che riduca il grado di ricattabilità materiale e
culturale che oggi attanaglia buona parte della forza-lavoro,
soprattutto precaria.

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