La nuova generazione

March 26, 2010

Dal dossier Gli Invisibili (dedicato al lavoro autonomo e all’impresa sociale) del secondo numero della Free press romana DINAMO

Terziario avanzato e lavoro autonomo

di Andrea Fumagalli

Che
il mercato del lavoro sia in ebollizione è cosa nota. Non
siamo più nei tempi in cui la stabilità del lavoro
rappresentava una delle poche certezze della vita. Tuttavia,
l’implosione della fabbrica fordista, con il suo carico di
gerarchia, comando, subordinazione e alienazione, non ha liberato
potenzialità e opportunità di vita migliori. Anzi.
Venendo meno la differenza tra tempo di vita e tempo di lavoro, più
che liberare la vita, ha fatto sì che essa sia stata sempre
più sottomessa al ricatto del lavoro.

Tutto
è cominciato alla fine degli anni Settanta, quando le prime
strategie di delocalizzazione (outsourcing) e di snellimento della
grande fabbrica (downsizing) hanno scomposto l’organizzazione
rigida dei siti industriali, prevalentemente situati nel nord-ovest
del paese. Nuove filiere produttive si sono evolute in direzione est
e sud-est. L’asse pedemontano che da Milano arriva a Trieste,
passando per Bergamo Brescia, Verona, Treviso, Udine è
diventato uno dei centri della produzione manifatturiera italiana.
Parimenti, lungo la via Emilia, verso Bologna e lungo la dorsale
adriatica, si è espanso un modello di industrializzazione
diffusa, eminentemente metalmeccanico, specializzato nei rapporti di
subfornitura con le grandi imprese internazionali.

Al
di là delle analisi di comodo (“piccolo è bello!”)
finalizzate all’oblio dei conflitti sociali degli anni Settanta,
si definisce in questo quadro una nuova composizione sociale del
lavoro. In uno dei primi libri che analizzava gli effetti delle
trasformazioni tecno-produttive in epoca post-fordista, Sergio
Bologna aveva coniato la fortunata espressione di lavoro
autonomo di seconda generazione
.
Con essa si intendeva l’emergere di nuove soggettività del
lavoro che andavano oltre la figura tipica del lavoratore salariato
fordista. Si trattava di analizzare e comprendere la nuova filiera
del comando capitalista sul lavoro, nel momento stesso in cui la
centralità della fabbrica, luogo produttivo omogeneo, si
scomponeva e tracimava nel territorio. Il nuovo lavoro autonomo
(appunto di seconda generazione) era adesso funzionale all’attività
di impresa, al capitale, in un contesto in cui la struttura
reticolare di impresa diventava il nuovo modello organizzativo. In
tal modo, si stemperava il conflitto capitale-lavoro e si avviava il
processo di frammentazione del lavoro stesso e delle sue
soggettività. Dal
lavoro subordinato, omogeneo, sindacalmente rappresentabile, si
passava così al lavoro autonomo, formalmente indipendente, ma
eterodiretto, fuori da ogni regola e controllo sindacale.

Negli
ultimi dieci anni, dopo una crescita quantitativa negli anni Settanta
e Ottanta, le statistiche ufficiali ci dicono che formalmente il
numero dei lavoratori autonomi si è ridotto, quasi a
significarne la decadenza. In
realtà, se svolgiamo un’analisi rigorosa, ci accorgiamo che
è fortemente aumentato il numero delle piccolissime imprese
con meno di tre addetti.

L’Istat considera tali imprese come attività imprenditoriali
vere e proprie. Il
37,4% degli occupati nell’economia di mercato, pari a circa 5,5
milioni di persone, lavora in cosiddette “imprese” la cui
dimensione media non supera i 2,7 addetti. Il numero di tali
microimprese fa sì che l’Italia si collochi al primo posto
per
la percentuale di addetti in microimprese (47% del totale)
,
davanti alla Polonia
(41%),
al Portogallo
(40%)
e alla Spagna
(39%).
Ora, l’impresa capitalistica si definisce per tre gradi di libertà:
di decidere come produrre, quanto produrre e il prezzo a cui
produrre. La stessa Istat calcola che gli imprenditori con tali
caratteristiche non siano più di 440.00 unità.

Ne
consegue che la stragrande maggioranza delle microimprese non
appartengono alla sfera del capitale, bensì a quella del
lavoro
.
In altre parole, il mondo del lavoro è oggi costituito da una
moltitudine di soggetti: lavoro dipendente, lavoro formalmente
autonomo ma eterodiretto, microimprese incatenate alla filiera di
subfornitura. Iniziare a ragionare in questi termini, ci
consentirebbe di cominciare un ragionamento di ricomposizione sociale
e politica a partire dal tema di un’unica e omogenea protezione
sociale e di un unico sistema di tassazione (welfare metropolitano).

Nel
corso degli anni Novanta e del primo decennio del Duemila, la fase
postfordista ha termine per lasciare spazio all’avvio vero e
proprio del capitalismo cognitivo. Il
nuovo paradigma socio-economico, basato sullo sfruttamento delle
dinamiche di apprendimento (generazione di
knowledge)
e di rete (sua diffusione), si caratterizza per una forte
specializzazione verso le produzioni immateriali, in un contesto di
organizzazione del lavoro che fa perno sul rapporto contradditorio
tra cooperazione e gerarchia
:
la prima nasce dalla natura sociale dei processi di rete e di
apprendimento, la seconda deriva dalla crescente precarietà
del lavoro e dalla sua condizione esistenziale di subalternità
e ricattabilità. In
questo contesto il lavoro autonomo di seconda generazione inizia a
cambiare fisionomia. Nuove soggettività si sviluppano e la
composizione sociale tende a modificarsi. La classica figura del
lavoratore autonomo inserito nella filiera dei servizi materiali alle
imprese, legata alla logistica delle merci, si compenetra con la
crescita, non sempre lineare, di un terziario immateriale legato alla
creazione e alla circolazione degli immaginari, dei linguaggi e dei
simboli (editoria, media, software, design, servizi finanziari e
immobiliari, ecc.).

Nelle realtà più avanzate, come a Milano, più
del 35% del valore aggiunto viene prodotto nel terziario immateriale
avanzato, contro un 32% dei servizi legati alla merce e una quota
inferiore al 30% per le attività industriali. E’ nel
terziario immateriale che si definisce una nuova figura di lavoro
autonomo di “terza” generazione. Essa è costituita da
soggetti giovani, prevalentemente di genere femminile (processo di
femminilizzazione del lavoro), con un grado di cultura medio alto
(processo di scolarizzazione di massa). A differenza di quella
precedente, questa generazione non ha alle spalle una tradizione di
lavoro subordinato-stabile: essa entra nel mercato del lavoro in una
posizione che è subito di precarietà e incertezza. Non
ha alle spalle una tradizione di lotte per la conquista di diritti
sociali e di cittadinanza. Le tipologie contrattuali sono sempre più
un misto tra subordinazione effettiva e indipendenza formale, sul
crinale della parasubordinazione, della partita Iva, dello stage. In
un contesto di lavoro cognitivo-relazionale, inoltre, la separazione
tra vita e lavoro, tra lavoro vivo e lavoro morto, diventa sempre più
esigua.

È
su questo crinale che si gioca da un lato la ricattabilità del
lavoro e dall’altro l’illusione del successo. E’ su questo
crinale, che è necessario fondare una nuova politica di
welfare, che sulla garanzia di accesso ai beni comuni e alla
continuità di reddito definisca i suoi cardini principali.

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