UN ANNO DI CRISI

January 4, 2010

L’agenda politica dei movimenti, mentre la ripresa sembra lontana

di Andrea Fumagalli

Se guardiamo alla congiuntura economica, il 2009 si chiude con
segnali contrastanti. Se guardiamo alla situazione sociale, l’anno si
chiude in modo tragico.

Nel corso degli ultimi 12 mesi, le
borse finanziarie mondiali hanno recuperato circa il 20%, oltre il 40%
se facciamo riferimento al punto di minimo toccato nel marzo scorso. E’
un andamento atteso, parzialmente “drogato” , se consideriamo che i
mercati finanziari sono oggi il cuore pulsante (nel bene e nel male)
del biocapitalismo contemporaneo. I facili catastrofisti di fine 2008
sono stati serviti. Tuttavia tale risultato è il risultato, soprattutto
negli ultimi due mesi, di fasi altalenanti, con momenti anche di forte
ribasso, sintomo di un’incertezza e una volatilità ancora troppo
elevata. E non può essere altrimenti, visto le numerose “bombe” ancora
inesplose che costellano il futuro dei mercati finanziari, dopo il caso
Dubai (dalle carte di credito, all’esplosione di nuovi “hedge funds”,
al rischio legato all’eccessivo indebitamento pubblico di molti paesi
“importanti”: Grecia, Spagna, Irlanda, fra tutti, alla carenza di
controllo dei cd. “fondi sovrani”). L’elevata immissione di liquidità
da parte degli Stati e delle Banche Centrali (come droga iniettata
nelle vene) ha consentito di tamponare le principali falle finanziarie
e ha permesso, nella seconda parte dell’anno, l’arresto della caduta
del Pil prima che raggiungesse livelli a rischio “default”.

Nel
frattempo, i dati del mercato del lavoro evidenziano una situazione
drammatica. La disoccupazione in tutti i paesi avanzati ha toccato e
superato il 10%, sino a oltre il 15% in alcuni contesti produttivi
(Spagna e Usa). Il tasso di disoccupazione italiano, “ufficialmente”
all’8,2%, inganna. Se si considerano anche i cassi-integrati e gli
scoraggiati, il dato del nostro paese non solo si allinea ma supera la
media europea del 12%. Ma non è solo il dato della disoccupazione ad
allarmare. Esso è semplicemente la spia di una situazione ancora
peggiore dal punto di vista sociale. Nel capitalismo cognitivo,
infatti, l’esercito industriale di riserva non è più costituito dai
disoccupati ma sempre più dai precari. E sono proprio i dati sulla
precarizzazione che alimentano previsioni poco rosee sulla capacità di
tenuta del nostro paese, una volta fuoriusciti dalle fasi più buie
della crisi. A dispetto di quanto spergiurano i nostri governanti,
novelli ufficiali che ballano sul Titanic che sta naufragando.

Ciò
a cui stiamo assistendo è, infatti, un costante scivolamento verso le
fasce più deboli e meno protette della precarietà. Chi sino a poco
tempo fa aveva un contratto stabile di lavoro, se licenziato, oggi si
deve accontentare di un contratto atipico, magari con qualche garanzia
in termini di previdenza e diritti del lavoro. Chi, invece, si trovava
già nel limbo della condizione precaria, assiste, impotente, in assenza
di qualunque forma di ammortizzatore sociale che garantisca continuità
di reddito, ad un degrado delle proprie condizioni contrattuali e
salariali. In ultimo, stanno i migranti, soggetti per di più alla
repressione quotidiana dei più elementari diritti di cittadinanza.

Si
tratta di una tendenza al peggioramento delle condizioni soprattutto di
reddito che colpisce tutti i settori lavorativi, in particolari quelli
legati alle nuove professioni del terziario, a maggior contenuto
cognitivo,a istruzione più elevata e più soggetti alla precarietà.
Paradossalmente, sono gli operai dell’industria che meglio riescono ad
organizzarsi per impedire la chiusura di fabbriche (a causa di
speculazioni immobiliari e finanziarie) , proprio perché gli unici in
grado di accedere ai quei pochi e miseri ammortizzatori sociali che
ancora esistono (Cig e mobilità) e quindi di essere, seppur
limitatamente, meno ricattabili sul piano del reddito. Le lotte in atto
(portate spesso all’estremo) ci mostrano che anche la capacità
concertativa del sindacato è venuta meno. La vertenza appena chiusa per
il rinnovo contrattuale dei giornalisti è, da questo punto di vista,
paradigmatica. In cambio di quattro miseri soldi (ma conditi a parole
dal riconoscimento di una professionalità sempre più servile), si
scaricano i costi della ristrutturazione e della crisi del settore su
quei 2/3 della categoria (spesso non riconosciuti professionalmente)
che lavorano nei media come precari invisibili a bassissimo salario.
Esempi simili sono riscontrabili nel settore della ricerca come in
quello dell’istruzione, oppure nel settore cosiddetto dei “creativi”.

Le
ricadute economiche e sociali di tale situazione si fanno già sentire.
I più recenti dati annotano un ulteriore aumento della concentrazione
della ricchezza: il 10% della popolazione più ricca arriva a detenere
quasi il 40% della ricchezza patrimoniale complessiva (dati BdI).
L’ideologia neoliberista e neo-con del “siamo tutti proprietari” si
infrange miseramente contro lo spirito predatore e gerarchico del
“libero” mercato. Se invece guardiamo al flusso dei redditi per il
biennio 2007-08, il 20% della popolazione più abbiente si è accaparrata
di quasi il 50% del valore aggiunto prodotto, mentre il 20% più povero
si è dovuto accontentare di meno del 10% (dati Cies, 2009)

Sul
piano della capacità di ripresa, infine, è facile osservare che i
settori a maggior valore aggiunto per addetto, cioè quelli produttivi
di valore, sono oggi quelli a maggior intensità di conoscenza,
all’interno del terziario avanzato. In Italia tali settori sono
arrivati a coprire quasi il 30% dell’occupazione e contribuiscono per
più di un terzo alla creazione del valore aggiunto. Essi sono del tutto
abbandonati a loro stessi. Le strategie padronali, sia private che
pubbliche, attuano solo strategie di contenimento dei costi, pochissimi
sono gli investimenti in innovazione. L’attività di ricerca e
informazione è oramai quasi in estinzione. Manca qualsiasi idea di
valorizzazione delle competenze che pure abbondantemente sono presenti.
Al loro interno le disparità di condizione di lavoro e di reddito sono
molto elevate. E’ l’esito di quello che possiamo definire una “guerra
all’intelligenza” (cfr. Manifesto dei lavoratori della conoscenza,
http://www.precaria.org/ materiale) . Di fatto, in Italia non esiste
una capitalismo cognitivo degno di tal nome, così come non esiste un
capitalismo manageriale.

Sulla base di queste contestazioni, il
2010 pone due nodi irrisolti nell’agenda dei movimenti sociali. Da un
lato, diventa primario impostare una battaglia per una riforma del
welfare adeguato alle nuove forme di sfruttamento e scomposizione del
lavoro. Parliamo qui di un welfare in grado di garantire due obiettivi
precisi: 1. continuità di reddito per tutte/i a prescindere dalla
condizione lavorativa, con proposte finalizzate a creare casse sociali
per il reddito in tutte le regioni italiani, che vadano oltre l’attuale
struttura degli ammortizzatori sociali: una struttura che oggi non è
più riformabile, ma crea solo iniquità e distorsioni redistributive,
alimentando concertazione e opportunismo politico. 2. Accesso libero e
gratuito ai beni comuni materiali (risorse naturali, acqua, energia,
ambiente) e immateriali (conoscenza, formazione, mobilità, casa,
socialità). Si tratta in ultima istanza di lanciare una battaglia per
il “common fare”.
Dall’altro lato, diventa importante aprire un
fronte di conflittualità nei nuovi settori della conoscenza, oggi
scomposti e tra loro in competizione, tramite nuove forme di strategie
biosindacali in grado di aggredire la condizione esistenziale e
generalizzata della precarietà. Ricomporre le diverse condizioni
lavorative in un’unica vertenza sociale, territoriale e metropolitana.
Sperimentare nuove forme di linguaggio e comunicazione. Ri/cominciare
ad intervenire con costanza nelle diverse realtà di crisi. Decostruire
l’idea che oggi ha il lavoro creativo e cognitivo nell’immaginario
comune, smascherando l’immagine di un successo raggiungibile per tutti
ma in realtà solo per pochi eletti e a danno di tutti gli altri.
Rilanciare il contro-immaginario dell’eccedenza e dell’autocoscienza,
in grado di rompere le gabbie della ricattabilità e della
subordinazione mentale.

L’autunno 2009 è stato piuttosto gelido.
L’inverno non si presenta molto diverso. Ma la primavera 2010 potrebbe
essere calda, se i germogli che piantiamo oggi saranno in grado di
maturare.

Dalla rubrica economica di Andrea Fumagalli  (GLOBALPROJECT.INFO)

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